Noi e Maradona

Su Diego Armando Maradona è stato detto tutto. Forse anche troppo. El Pibe de Oro se n’è andato sette giorni fa ma, purtroppo o per fortuna, la pagina che riguarda El Diez non verrà mai voltata definitivamente. Tralasciando le vicende giudiziarie, ci sono organi competenti che se ne stanno occupando; e quelle familiari, con richieste di riesumazione e discussioni su eredità; bisogna prendere atto di una situazione piuttosto chiara: uno degli uomini più amati del mondo è morto da solo. Una solitudine che probabilmente lo ha accompagnato in molti momenti della sua vita e lo ha tenuto per mano fino agli ultimi giorni. Una contraddizione incredibile, soprattutto se si butta uno sguardo fuori dalla finestra e si guarda come la gente comune lo ha omaggiato: un paese intero, l’Argentina, e una città, Napoli, hanno rallentato il loro ritmo per diversi giorni per rendere omaggio al loro Re. Ma è stato il mondo ad accogliere con grande stupore e commozione la sua scomparsa.

Maradona non è una persona qualunque canta Andrés Calamaro, e non gli si può dare torto. È stato imprevedibile e imprendibile nel calcio e nella vita allo stesso tempo. Diego è stato esagerato in tutto ciò che ha fatto, un uomo senza limiti. Ma solo nel rettangolo verde sembrava essere davvero felice. Ha rappresentato il “Sueño del Pibe” di Juan Puey in tutto e per tutto. Ha costruito il suo mito fin da bambino, quando accorrevano nei campi di periferia per ammirarlo; e lo ha portato a livello globale con naturalezza, quasi fosse una missione, senza tutti i mezzi che ci accompagnano oggi e facendosi sempre portavoce del suo popolo. Tutto questo mentre era sottoposto ogni giorno al peso insopportabile di essere Maradona.

“Ho bisogno che abbiano bisogno di me”. Doveva sentirsi speciale, importante, nonostante tutto questo lo soffocava. Ha preso strade sbagliate in diverse occasioni, lo ha ammesso e ha pagato la maggior parte delle volte sulla sua pelle. Quanti personaggi del calibro di Diego hanno ammesso i loro sbagli senza trovare una benché minima scusa? “Yo me equivoqué y pagué, pero la pelota no se mancha”. (“Ho sbagliato e ho pagato, ma la palla non si è macchiata”). Poche parole, semplici e chiare. Un’ammissione e una dichiarazione d’amore alla quale andrebbe aggiunto il pensiero di Vazquez Montalban del luglio del 1994 ma valido per i benpensanti dei giorni nostri: “Ma c’è qualcuno che ha ordinato il controllo antidoping per tutti quelli che hanno perseguitato-condannato Maradona?”. 

Non è tutto giusto, non è in atto nessuna santificazione, come qualcuno vorrebbe far passare in questi giorni. È la vita, portata al limite più esasperato. A volte attraverso una bellezza accecante, altre volte calpestata in maniera folle. Maradona è stato tutto questo. Prendere o lasciare. Non si può scindere il calciatore dall’uomo o viceversa. È lui quello della punizione a due in area alla Juventus ed è lo stesso della marcia anti-Bush di Mar del Plata, quello della Mano de Dios e l’uomo che nel 1991 durante il suo arresto si sentì dire dal poliziotto “Coglione, eri l’idolo di mio figlio”. Gli rispose: “Coglione, l’idolo di tuo figlio dovresti essere tu!”.

In campo è stato tutto ciò che un amante del futbol vorrebbe essere. Geniale e irriverente, malandrino e corretto. Era tutto e niente con il pallone sul prato verde. L’unico posto al mondo sembrava essere davvero felice. ‘E chi sei Maradona!’ è l’intercalare più usato quando qualcuno cerca la giocata un po’ più difficile nella partitina con gli amici o durante gli allenamenti di squadra. Chi lo ha ammirato dal vivo, lo venera, e chi non lo ha fatto cerca di recuperare in qualsiasi modo perché è fin troppo evidente che c’è qualcosa di straordinario in ogni gesto, in ogni movenza. Nell’intervista a se stesso al programma tv La noche del diez del 2005 lasciò il suo epitaffio: “Grazie di aver giocato a calcio, perché è lo sport che mi ha dato più gioia, più libertà. È come toccare il cielo con le mani. Grazie al pallone. Sì, scriverei sulla lapide: grazie al pallone”.

Se n’è andato in solitudine Diego, proprio come quando lasciò Napoli. Quella storia era diventata un peso e raccontarlo non toglie nulla alla straordinaria epopea napoletana di Maradona (gli stessi argentini sono convinti che il periodo migliore del Pibe de Oro sia stato quello di Napoli e al Mondiale ’86). Quello che è accaduto in questi giorni è la testimonianza più evidente. Diego Maradona è stato capace di unire due mondi in vita e anche oltre, due luoghi lontani che forse si somigliano ma che appartengono a latitudini diverse e sono il prodotto di storie che hanno visto occupazioni, antiche dinastie, guerre e rivoluzioni. L’ultima delle quai, però, l’ha fatta lui sia in Argentina che a Napoli.

La parentesi di Sinaloa aveva scatenato l’ilarità dei suoi detrattori, che non si sono risparmiati nemmeno negli ultimi giorni, ma come disse il Negro Roberto Fontanarrosa: “La verità è che non importa cosa Diego ha fatto con la sua vita, mi interessa quello che ha fatto con la mia”. (“La verdad que no me importa lo que Diego hizo con su vida, me importa lo que hizo con la mía”). Il mondo dello sport lo ha salutato in tutti i modi possibili, riconoscendo il suo insuperabile talento e il suo essere eroe di chi, nonostante tutto, non smette mai di credere in un sogno. Diego Armando Maradona rappresenta quel sogno e non morirà mai.

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